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Alessandro Marzocchi

4 anni fa

Giovedi 19 settembre 2019, H 12,15

Bio:
Arezzo 10 maggio 1934, giurista.
Già Professore ordinario di diritto costituzionale, di diritto pubblico nelle Università di Cagliari, Siena e Firenze. Ha insegnato per contratto diritto dell’informazione e delle comunicazioni nelle Università di Napoli e Roma. Autore di numerose pubblicazioni ha orientato la sua produzione scientifica verso l’analisi delle funzioni di governo e delle libertà connesse all’uso dei mass-media. Alcuni suoi scritti sono dedicati a temi di storia costituzionale.
Giudice della Corte Costituzionale dal 1987 al 1995 e Vice Presidente della stessa Corte dal 1995 al 1996, Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dal 1998 al 2005.

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Dialogo e democrazia, di Enzo Cheli

1. Le democrazie moderne nascono dalle grandi rivoluzioni liberali del XVII e XVIII secolo e trovano, nei due secoli successivi, il loro terreno di sviluppo nella vita dei Parlamenti.
Il Parlamento è il “luogo dove si parla”, si esprimono liberamente le proprie idee, ci si confronta con chi esprime idee diverse e, alla fine, si decide in base alla volontà che viene a emergere dalla maggioranza.
Le democrazie moderne si fondano, quindi, su una regola procedurale (con il potere decisionale affidato alle maggioranze attraverso un libero confronto di idee), che sottintende un principio di etica civile basato sul dialogo, cioè sull’ascolto e sul rispetto dell’avversario. Principio di etica civile che Norberto Bobbio, ispirandosi proprio al pensiero di Guido Calogero, riassumeva efficacemente nelle “virtù del laico” rappresentate “dalla moderazione, dalla tolleranza e dal rispetto delle idee altrui”.
Il dialogo rappresenta, dunque, il perno morale e procedurale delle democrazie moderne rette da istituzioni rappresentative del corpo sociale e da governi responsabili nei confronti di tali istituzioni. La democrazia rappresentativa unita al governo parlamentare (che la nostra costituzione ha recepito con tratti originali) ha rappresentato, infatti, nella storia dell’Occidente, la forma più efficace attraverso cui finora si è potuta esercitare la sovranità popolare che sta alla base della stessa nozione di democrazia.

2. Nel corso degli ultimi anni questi principi elementari sono stati sottoposti, non solo in Italia, a forti attacchi critici ed hanno subito un’erosione che va oggi crescendo. Le critiche hanno investito, in particolare, lo stesso concetto di rappresentanza che sottintende la presenza di una classe politica in grado di orientare le scelte del corpo sociale nonché l’esistenza di partiti politici in grado di organizzare il consenso intorno a queste scelte selezionando le persone chiamate a sostenerle.
Queste critiche, favorite dagli effetti negativi della globalizzazione economica e dal declino dei partiti tradizionali fondati su ideologie consolidate, stanno investendo le basi della democrazia rappresentativa nella prospettiva di una nuova forma di esercizio della sovranità popolare fondata sulla democrazia diretta senza la presenza necessaria di mediatori sociali. Da qui le previsioni pessimistiche che oggi si vanno diffondendo in ordine al futuro dei regimi democratici di matrice liberale e sociale che abbiamo sinora conosciuto e praticato. Con la conseguente denuncia di due possibili rischi che oggi appaiono sempre più evidenti: quello di una sovranità popolare che inseguendo l’utopia della democrazia diretta viene a dissolversi in una forma anonima di “populismo”; e quello di una democrazia che, perduti i perni della rappresentanza e del governo parlamentare, finisce per scivolare in forme di governo autoritario a guida monocratica.

3. Nella fase di passaggio che stiamo attraversando risulta per il momento impossibile formulare previsioni sui possibili sbocchi di queste vicende istituzionali. Esistono però già elementi sufficienti per analizzare le cause dei processi in atto e, almeno per chi crede nei valori del dialogo e della democrazia rappresentativa fondata sulla libertà di espressione del pensiero, per impegnarsi ad affrontare i possibili strumenti in grado di opporsi alla deriva in atto. Su questo terreno è indubbio che la prima causa della crisi che sta oggi investendo il campo delle democrazie rappresentative vada ricercata sul piano dell’evoluzione delle tecnologie e, in particolare, delle tecnologie della comunicazione. La politica è in primo luogo comunicazione e se cambiano le tecniche della comunicazione è inevitabile che cambino anche le forme della politica che per sua natura è diretta ad influire sulla opinione pubblica al fine di acquisirne il consenso.

4. Il fenomeno, del resto, non è nuovo: basti solo pensare all’emarginazione che già nello scorso secolo ha subito la stampa come forma di comunicazione scritta in seguito all’avvento della televisione come forma di comunicazione visiva. Solo che oggi il passaggio cui stiamo assistendo nasce dalla diffusione di strumenti comunicativi ben più diretti e potenti come internet ed i social network. Al momento della nascita di questi strumenti si era indotti a pensare che il loro uso corretto avrebbe condotto ad aumentare la libertà di espressione e la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica così da rafforzare le basi dei regimi democratici. Ma questa era una previsione ottimistica che non si è realizzata dal momento che questi strumenti, rimasti sinora fuori controllo per l’assenza di regole certe, anziché consolidare hanno finito per incrinare le basi della coesione sociale operando come lenti deformanti dell’opinione pubblica o come mezzi contundenti da usare anonimamente contro gli avversari. Accade così che alla tradizionale nozione di democrazia fondata sul dialogo e sul rispetto dell’avversario si va oggi sovrapponendo una “democrazia della bolla” (bubble democracy) dove ciascuno viene a rappresentare le proprie idee all’interno di circuiti chiusi in cui l’opinione dell’avversario, che è divenuto nemico, non deve trovare ingresso. Attraverso l’uso scorretto e non regolato delle tecnologie si vengono così progressivamente a scalzare le stesse basi della democrazia.

5. Che fare per opporsi e tentare di invertire questa deriva?
Le ricette di cui oggi si sente parlare sia nel nostro paese che nel resto del mondo sono tante ma per avere successo – tenendo conto della natura non temporanea né casuale dei processi in atto – devono, a nostro avviso, tenere conto di due condizioni preliminari che investono due diversi campi di azione.
Il primo campo è quello della scuola, cioè della formazione culturale, oltre che tecnica, delle nuove generazioni “digitali”, così da addestrarle, fin dalla prima giovinezza, ad un uso cosciente, critico e morale dei nuovi mezzi, dove i benefici delle nuove forme di comunicazione vengano ben bilanciati con i loro costi sociali.
Il secondo campo è quello delle regole che ancora mancano. Su questo terreno la sfida non facile da affrontare supera naturalmente, per la natura dei mezzi da regolare, i confini delle legislazioni nazionali e investe direttamente il livello internazionale che dovrà al più presto mettere in agenda – ove si voglia evitare che gli scricchiolii che oggi avvertiamo si trasformino in un crollo – il tema della “costituzione di Internet”, cioè di una “carta dei diritti e doveri del mondo digitale” che gli Stati si impegnino a recepire e far rispettare.

 

 

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